L'OASI del tempo 2019




La Bottega delle Maschere
l'OASI del tempo
2019 - 2020
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Il  III  'Salottino' 
del 2, 9 e 16 dicembre 2019


Sogno o realtà?

La storia della farfalla di Zhuāngzǐ





  Il filoso e mistico cinese Zhuāngzǐ nato nel 369 a.C. e fondatore del dadaismo, nel testo daoista da lui scritto e chiamato col proprio nome, racconta una storia molto interessante chiamata  
“Zhuangzi sognò di essere una farfalla” (莊周夢蝶 Zhuang Zhou meng die).



Zhuangzi racconta che una notte sognò di essere una farfalla che volava leggera e spensierata. Nel momento in cui si svegliò era confuso: si domandò come potesse sapere con certezza se lui stesso fosse veramente un uomo che aveva appena finito di sognare di essere una farfalla, o una farfalla che aveva appena iniziato a sognare di essere un uomo



Nella vita quali sono i contorni che delimitano con chiarezza ciò che è reale da ciò che è sogno? Zhuangzi, mentre sognava, si vedeva farfalla, ma allo stesso tempo era anche essere umano; contemporaneamente una farfalla che sogna Zhuangzi si vede essere umano ma allo stesso tempo è anche una farfalla



Il racconto di Zhuangzi induce a pensare che la dimensione dell’esperienza sia disposta su due piani: il primo piano è quello del sogno e il secondo è quello della veglia.



L’enigma del sogno, che ha affascinato da sempre gli esseri umani sollecitandone infinite spiegazioni, è diventato oggetto di studi e indagini scientifiche lungo tutto il XX secolo, a partire dalla pubblicazione de ‘L’interpretazione dei sogni’ di Sigmund Freud (1900). Oggi la ricerca sperimentale sugli ‘stati di coscienza’ (nei tre livelli della veglia, del sonno e del sogno) è condotta prevalentemente nell’ambito delle neuroscienze e della psicobiologia.



Nel terzo ciclo di incontri all’Oasi del Tempo, un'escurrsione guidata tra i segreti del sogno, fino al crinale misterioso che segna il confine tra realtà e immaginazione.




SOGNO O REALTÀ? 
L’enigma degli enigmi


La nostra esistenza è come un cammino lungo la cima di un muro. Procediamo sospesi tra due profondità: quella che abbiamo imparato a decifrare mediante le categorie dello spazio e del tempo - nella quale ci adattiamo a convivere insieme a tutti i nostri simili - che chiamiamo ‘realtà’; l’altra - oscura impenetrabile misteriosa - che ci avvolge nell’ombra di una solitudine assoluta, spingendoci alla deriva su un oceano senza approdi e senza confini, che chiamiamo ‘sonno’. Tra queste due profondità, uno squarcio abbagliante come un lampo nella notte, l’esperienza spaesante e inafferrabile del ‘sogno’

Il sogno balenante tra  il giorno e la notte e l’enigma degli enigmi, in cui da sempre l’uomo ha tentato di leggere un senso e a cui attribuire un significato. La voce degli dei? I presentimenti della mente e del cuore? La rappresentazione delle mille sensazioni corporee? Fantasticherie del pensiero in libera uscita?


Come l’esplorazione di un antico tempio


Intraprendiamo insieme questo viaggio nel mistero, partendo da una prima esplorazione dell’antico tempio del sonno e del sogno.


1 - Sul prònao

Sul prònao (all’ingresso, prima di entrare nel  tempio ignoto), ci soffermiamo per una riflessione preliminare sui nostri fondamentali modi di essere.  

-       La vita:  siamo cellule di un mirabile organismo in continuo rinnovamento che si autoconserva in un universo di cui non conosciamo gli orizzonti. Il destino di ciascun vivente: mantenere accesa fino alla fine la lampada della propria vita parcellare, per conservare la vita alla propria specie.

-     L’esistenza: un soffio di vita (anima?), un tratto di strada da percorrere, un compito temporaneo assegnato ad ogni essere vivente. Usciti dal tunnel del nulla, sul binario dell’esistenza è il nostro breve/lungo viaggiodi esplorazione, di scoperta, di ritorno.

-    La coscienza:  nell’animale-uomo, la consapevolezza riflessa di vivere e di esistere. E con tale consapevolezza, la curiosità di sapere di più, la fuga dal presente verso i ricordi passati o l’immaginazione del desiderio, le gioie le inquietudini e i tormenti del continuo lottare per esistere.

I meccanismì regolatori della vita, dell’esistenza individuale e, nell’uomo, di ogni forma e grado di consapevolezza  (coscienza di sé e conoscenza del mondo esterno), sono localizzati nella scatola cranica, in un organo di controllo perennemente  operativo: l’encefalo.

Nell’encefalo - come in una cabina di regìa automatica - si coordinano i ritmi e le caratteristiche dei livelli di coscienza, riconducibili a 3 stati: lo stato di veglia, lo stato di sonno e - durante il sonno - l’esperienza onirica (del sognare).

Il nostro vivere quotidiano si articola dunque sui tre livelli di coscienza che si producono durante la veglia, durante il sonno e nel particolare tempo del sogno.

            Utilizzando una metafora pirandelliana, potremmo descrivere la nostra esistenza come una 
            grande rappresentazione teatrale:


-     lo stato di veglia è la vita reale, la performance in cui recitiamo la nostra parte, intessiamo reti di rapporti, interagiamo, costruiamo e spezziamo legami, giochiamo ad essere e ad apparire come vogliamo, e come desideriamo che gli altri ci percepiscano;

-    il sonno è la pausa di riposo che segue la nostra rappresentazione sulla scena dell’esistenza reale: le luci si spengono e un tranquillo silenzio avvolge tutta la location teatrale: dormono le maestranze, gli autori e gli attori, in attesa della successiva messa in scena;

-     nella quiete notturna, c’è chi pensa a come sono andate le performances precedenti: la mente si sofferma sugli errori commessi e sul modo di correggerli, mentre la fantasia si figura quello che succederà domani , vedendoselo davanti agli occhi come se fosse vero… il sogno è un modo per prepararsi a un nuovo incontro con la realtà.


2 - Nella cripta sotterranea

 Cominciamo ad esplorare i segreti del sonno e del sogno (guidati dal più celebre tra gli ‘archeologi dell’inconscio’, Sigmund Freud) partendo dai sotterranei del tempio misterioso. Le cripte nascondono sempre sorprendenti ‘rivelazioni’: vi troveremo indizi utili per andare oltre il divino enigma del dormire e del sognare? …


Il sogno appare nel moderno panorama scientifico all’alba del XX secolo (1900), con la pubblicazione dell’opera “Traumdeutung” (L’ “Interpretazione dei sogni”) del medico viennese Sigmund Freud. 


Freud dedicò lunghi anni allo studio dei sogni, raccogliendo le sue osservazioni e le sue ipotesi  interpretative in ‘Traumdeutung’, ove è anche proposta una suggestiva teoria riguardante la struttura dell’apparato psichico umano, descritta con la la nota metafora dell’iceberg.
Secondo Freud  l’attività mentale è in gran parte sommersa, invisibile e inconsapevole, la parte emerge e che è consapevole è molto limitata. Ciò significa che le nostre scelte, i nostri comportamenti sono generalmente determinati dalla parte sommersa. 

1a  rivelazione

L’apparato psichico sarebbe quindi formato da due elementi o ‘istanze’principali:
-  l’inconscio, contenente tutti gli eventi che sono stati dimenticati, rimossi, o intollerabili, ma anche capacità non ancora emerse alla coscienza;
-  il conscio, luogo dei contenuti psichici consapevoli, a contatto con la realtà esterna attraverso i sensi.


In un periodo successivo, Freud ridisegnò nel modo seguente la topografia dell’apparato psichico:

   -  l’Es (inconscio), il potenziale energetico attivatore di tutte le pulsioni (sessuali, aggressive, autoconservative) innate ed apprese;
   -   il Super-Io, vero e proprio sistema di controllo, rappresentazione imperativa e normativa della coscienza morale, frutto della prima formazione genitoriale, dell’educazione e della cultura;
    -   l’Io, il sistema operativo mediatore tra le richieste della realtà e le imposizioni del Super-Io, sede del pensiero vigile e consapevole. 



2a  rivelazione

L’Es - sostiene Freud - è il pozzo profondo dal quale la mente attinge i contenuti del sogno: contenuti spesso lontani nel tempo, dimenticati, o rimossi a causa delle censure del Super-Io; l’esperienza onirica li ripropone all’attenzione dell’Io in forma mascherata (sotto… mentite spoglie!) affinché l’Io, riflettendosi in essi, riconosca la propria realtà vera, e ritrovi la strada per riconciliarsi con se stesso.

Nel sogno sono distinguibili due contenuti: a) il contenuto manifesto è la parte di sogno che si ricorda, costituita da elementi conseguenziali, ripercorribili ed esprimibili in forma narrativa: tuttavia - poiché il linguaggio del sogno non ha carattere logico ma analogico - ogni elemento ha valenze simboliche che devono essere correttamente interpretate per poter arrivare al significato profondo del sogno; b) il contenuto latente rappresenta l’insieme dei significati velati dagli elementi manifesti del sogno: il contenuto latente custodisce il messaggio che, in forma onirica, l’inconscio trasmette alla possibile consapevolezza dell’Io. 

3a  rivelazione

Sigmund Freud e il suo primo allievo Gustav Jung, nei primi decenni del Novecento, approfondirono gli studi sul funzionamento della psiche umana, dell’attività conscia e inconscia della mente. L’esplorazione del magma perennemente attivo e incontrollabile rappresentato dall’Es, indusse Freud a ravvisare nella sessualità (e cioè nel caratteristico modo di essere maschio o femmina) il cuore del potenziale energetico dell’esistenza biologica e psicologica, il carburante dell’Es e perciò del ciclo vitale di ogni individuo. La sessualità con le sue pulsioni costituirebbe dunque la fucina dove si creano i sogni.

La teoria della sessualità rappresenta l’aspetto storicamente e culturalmente più dirompente della psicoanalisi freudiana. Prima di Freud la sessualità era identificata infatti con la genitalità, cioé l’attitudine alla riproduzione: come tale la sessualità, assente negli anni dell’infanzia, sarebbe emersa soltanto all’epoca della pubertà, orientata esclusivamente all’unione sessuale. Freud fu il primo a sostenere che la sessualità è un’energia suscettibile di dirigersi non solo verso l’accoppiamento genitale, ma  verso le mete più diverse, e riguarda ogni individuo (quindi anche il bambino!) dai primordi del suo concepimento fino alla morte. 


Carl Gustav Jung

Jung, rielaborando il concetto di ‘sessualità’ freudiano, propose una duplice articolazione dell’Es:
-  l’inconscio personale, contenente - come suggeriva Freud - tutti gli elementi dimenticati,  rimossi, intollerabili o ancora nascosti alla coscienza,
-  l’inconscio collettivo, condiviso con gli altri membri della specie umana, e comprendente memorie latenti del nostro passato ancestrale ed evolutivo (gli ‘archétipi’).

Di notte, nel sogno, le barriere difensive create dal Super-Io si indeboliscono e l’Io - secondo Jung - possono entrare in contatto con l’inconscio collettivo, serbatoio di tutti i miti, i simboli, le credenze del mondo (gli archetipi), comuni a tutti i popoli e a tutte le civiltà. 

L’inconscio non sarebbe così solo la sede dell’esperienza onirica, ma il laboratorio della fantasia, della rappresentazione, della creatività artistica, dei linguaggi, della cultura e dello stesso pensiero razionale. 

4a  rivelazione

Il cervello - luogo delle funzioni psichiche – è una centralina elettrica in continua attività. L’attività elettrica del cervello  può essere evidenziata grazie alle tecniche dell’elettroencefalografia messe a punto alla fine degli anni 20 dal medico tedesco Hans Berger. L’elettroencefalografia ha rivelato diverse tipologie di onde elettromagnetiche (ritmi elettrici) in relazione all’attività cerebrale:
-       ritmo delta (0,5-04 cicli/sec.):  tipico del sonno profondo
-       ritmo theta (04-07 cicli/sec.):  tipico del sonno leggero, del relax mentale e del 
        pensiero creativo
-       ritmo alfa (07-14 cicli/sec.): tipico del sogno e dei sogni lucidi
-       ritmo beta (14-30 cicli/sec.): tipico della veglia attenta




Nel 1953 Nathaniel Kleitman ed Eugene Aserinsky, pionieri della ricerca sperimentale sul sonno, scoprirono che durante il riposo notturno l’attività elettrica del cervello del dormiente, caratterizzata dal ritmo delta, subisce delle improvvise brevi impennate (della durata di dieci minuti circa, a distanza di poco più di 90 minuti ciascuna) con comparsa del ritmo alfa e di rapidi movimenti oculari (rapid eyes movement), chiaramente coincidenti con l’esperienza del sogno. Da allora, i livelli di coscienza noti come veglia e sonno, sono stati riformulati nelle tre dimensioni di veglia, sonno REM, sonno Non-REM.

5a  rivelazione

L’esperienza vissuta nello stato di veglia sulla traccia spaziotemporale, le oscure profondità del sonno, la mirabile rappresentazione onirica del sogno tanto fantasiosa quanto verosimile, rappresentano i tre pilastri fondamentali dell’esperienza. La nave dell’esistenza – come la navata dell’antico tempio in cui stiamo per entrare – si mantiene su queste colonne portanti.
 
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Il  II  'Salottino' 
del 4, 11 e 18 novembre 2019





Il tramonto dell’Impero Romano



Nell’anno 410 dell’era cristiana i Visigoti guidati da Alarico, dopo tre anni di assedio, invasero Roma. Il popolo inerme, stremato dalla fame e dalle epidemie, assistette allo scempio della Città Eterna in preda ai saccheggi e al fuoco. 



La notizia attraversò come un fulmine l’Occidente, il vicino Oriente e l’Africa mediterranea. Agostino vescovo di Ippona vide nella triste fine di Roma il tramonto definitivo della civiltà pagana, e preconizzò il sorgere della ‘città di Dio’ dalle ceneri ancora fumanti dell’Urbe.



Pochi decenni dopo, nel 476, la deposizione dell’ultimo imperatore Romolo Augusto il Piccolo segnerà conclusione della millenaria storia di Roma e, per convenzione, la data d’inizio di un’altra epoca, il medio evo.



Comunemente si usa suddividere il Medioevo in due periodi di cinque secoli ciascuno:

L’Alto Medioevo (dal V al X secolo d.C.), caratterizzato da difficili condizioni economiche e dalle continue invasioni barbariche

Il Basso Medioevo (dall’XI al XV secolo d.C.), caratterizzato dallo sviluppo di forme di governo basate su signorie e vassallaggio, dalla costruzione di castelli e dalla rinascita della vita dei borghi e delle città.



I secoli che seguirono – almeno fino al Mille – furono considerati più tardi ‘secoli bui’, quasi una lunga notte fonda popolata da incubi e paure. 



Certamente la decadenza politica e culturale dell’impero romano aveva raggiunto, alla metà del primo millennio, un punto di non ritorno. I vuoti di potere, l’immoralità dilagante, le invasioni barbariche, avevano ridotto allo stremo la possibilità di sopravvivenza della grandezza di Roma. Le città furono abbandonate alle ruberie e ai saccheggi, i campi non più coltivati, le scuole e i templi deserti; nelle campagne si andavano diffondendo, insieme a fame guerra e miseria, le epidemie, le superstizioni, l’ignoranza. Così il faro luminoso della più grande civiltà del mondo antico si spegneva precipitando nella notte cielo e terra. 



Le migrazioni dei popoli cosiddetti barbari (germani, slavi, sarmatici e asiatici) all'interno dei confini dell'Impero romano, tra il II e il V secolo sono note come invasioni barbariche. Alcune incursioni rappresentarono vere e proprie invasioni, come nel caso degli Unni che facevano irruzione nei territori dell'Impero terrorizzando gli abitanti. L'invasione più famosa, quella dei Visigoti, culminò nel Sacco di Roma del 410. Ma se alcune tribù barbare rifiutavano la cultura romana, altre la ammiravano. L'impero cominciò ad accogliere un grande numero di tribù germaniche come foederati e ammetterli come mercenari nell'esercito romano. In cambio di terra da coltivare le tribù federate fornirono così un prezioso sostegno militare all'impero. 






Nei ‘secoli bui’, nessuna comunità si sentiva al sicuro da improvvise irruzioni di spietati predoni, che arrivavano ovunque via mare, via fiumi, o anche per via di terra. Non solo le città erano abbandonate, ma anche le campagne venivano disertate. L'analfabetismo non era più prerogativa delle masse incolte, ma perfino i potenti dell'epoca non sapevano leggere e scrivere. Solo nei monasteri sopravvisse quel poco che si poté salvare della civiltà latina, anche se nei primi secoli la regola benedettina privilegiava comunque il lavoro manuale su quello intellettuale.



Fra tanto squallore il cristianesimo della chiesa nascente, con la sua attenzione agli ultimi e con il suo vangelo di liberazione, indicava ancora una possibile via di salvezza. E non sorprende che in quell’epoca la gente fosse portata a pensare che la fede nella ‘verità’ custodita dalla Chiesa, era l’unica strada da percorrere per salvarsi l’anima.



Il crollo di ogni sicurezza individuale e sociale, l’oscurità del domani, il terrore per la morte avvertita come ogni giorno imminente, generava un diffuso bisogno di pace e di giustizia, bisogno che ritrovava nella magia dei miti enelle narrazioni religiose approdi rassicuranti e conforto.





Il giudizio finale



La concezione che al termine della vita Dio giudicherà tutti gli uomini in base alle azioni compiute e destinerà ciascuno al Paradiso oppure all'Inferno è comune a molte religioni, in particolare a quelle presenti nel contesto culturale in cui è nato il cristianesimo: l'ebraismo, lo zoroastrismo, la religione egizia.



Il giudizio finale costituisce, nell'ambito della dottrina cristiana, il momento conclusivo della storia dell'umanità nel quale si compie in forma grandiosa e solenne la giustizia divina. Il concetto di giudizio finale (o universale) - presente già nell'Antico Testamento, e in particolare nel libro di Daniele –aveva già assunto rilevanza in alcuni pagine dei vangeli sinottici (Mt. 25,31-46, Mc. 13, 24-37 e Lc. 21,25-38) e soprattutto nell'Apocalisse (=‘Rivelazione’) di Giovanni, scritto conclusivo del Nuovo Testamento.

 
                                                                                             Il ‘giudizio universale’ nell’arte pittorica

Quello del Giudizio universale è certamente uno dei soggetti più ricorrenti nell'arte sacra di tutte le epoche. Dagli oscuri maestri delle chiese medioevali fino ad arrivare ai più famosi pittori prerinascimentali, moltissimi artisti si cimentarono nel dare forma e colore alle inquietudini sulla sorte finale e alle paure collettive e quotidiane della società del tempo. 

L’arte pittorica medievale si nutrì di immagini di diavoli e dannati su cui si sarebbe abbattuta la ‘giustizia di Dio’ nel  giorno della sua ira.

In una società in cui gran parte delle persone non sapeva leggere né scrivere e in cui si stavano formando lingue diverse dal latino, le immagini erano utilizzate come veicolo immediato delle narrazioni religiose. Fu dunque l’arte a diffondere una visione concreta dell’aldilà; le terribili figure di dannati torturati da demoni ripugnanti dovevano suscitare un sincero sgomento nell’uomo medioevale, inducendolo a pentirsi dei peccati e a salvarsi.

Nel mosaico del Giudizio finale del Battistero di Firenze attribuito a Coppo di Marcovaldo (1260-1270) campeggia sulla scena un orrendo diavolo che divora i dannati e ha tutti gli attributi tipici del demonio (le corna, la barba nera, i serpenti), elaborati con uno stile grottesco, deformante e fortemente espressivo. La scena è inoltre satura di dannati e di diavoli che li sottopongono a torture spaventose.

A Padova, nella Cappella degli Scrovegni, è presente il maestoso affresco di Giotto che rappresenta il Giudizio finale (1306).  La vasta composizione si stende sull'intera controfacciata e costituisce il punto d'arrivo della simbologia morale, del cammino di salvazione rappresentato nella Cappella. Più che l'accentuazione mistica o il senso di orrore per le pene dei dannati appare dominante il tema della giustiziadivina, impersonata dalla grande figura di Cristo. Con gesto pacato ma sicuro Egli divide nettamente due settori: a destra gli eletti; a sinistra i reprobi, travolti da un fiume di fuoco che li fa precipitare all'Inferno. 


Un Giudizio Universale del Beato Angelico (1425-31) si trova nel Museo nazionale di San Marco a Firenze. Si tratta di una tempera su tavola usata per decorare la cimasa del seggio del coro. Al centro della sublime scena c’è il Cristo Giudice. Nel bordo inferiore del coro angelico è rappresentato un angelo con la croce e due angeli dell’Apocalisse che suonano le trombe, al cui richiamo si destano i morti dai loro sepolcri. Alla destra di Cristo il Paradiso, alla sua sinistra l’Inferno.



Nel Museo Nazionale di Danzica è conservato il Giudizio Universale (1467-1473) di Hans Memling, uno dei migliori esempi dell’arte pittorica olandese. Si tratta di un trittico composto da un grande pannello centrale rappresentante il Giudizio finale e da due pannelli laterali raffiguranti la Porta del paradiso e l’Inferno. Cristo domina tutta la scena dall’arcobaleno e appoggia i piedi su una sfera che rappresenta il mondo. Il realismo di Memling non ha pari tra i suoi contemporanei. La sua fantasia ètuttavia più sobria rispetto a quella degli altri artisti nordici, più macabri e grotteschi. L’artista preferì concentrarsi sulle figure degli umani rese con grande cura e delicatezza.


La rappresentazione del Giudizio finale di Hieronymus Bosch nel ‘Trittico di Vienna’ (1482) è considerata un unicum nella storia della pittura. Incredibile e forse insuperata la potenza della sua fantasia, che per quanto legata palesemente alla dimensione religiosa, sconfina spesso nell'orrido e nel prodigioso con inquietanti aspetti demoniaci ed erotici. 




Luca Signorelli realizzò, nella cappella di San Brizio a Orvieto, affreschi magistrali dalle sfumature terribilmente apocalittiche sul ‘giorno dell’ira’ (1499-1506). Nella Cappella c’è un movimento, una drammaticità senza fine: i corpi invadono gli spazi, combattono, si avviluppano, rinascono, si annientano, in bilico tra vita e morte, luce e tenebre, nell’attesa del verdetto divino.Il mondo sta giungendo al suo termine, non c’è più altra possibilità che paradiso o inferno. A Dio Giudice l’ ultima sentenza: beatitudine o dannazione eterna. Le figure del Signorelli trasudano sofferenza, fanno immergere in quella mostruosa agonia della scelta finale, segni sia di bellezza sublime che di bruttezza demoniaca.


Il Duomo di Santa Maria Assunta a Todi ha sulla controfacciata un grande affresco raffigurante il Giudizio universale (1596) realizzato da Ferraù Fenzoni da Faenza.  Diverse, nell’opera, le citazioni del Giudizio di Michelangelo nella Cappella Sistina, a cominciare dalle immagini del Cristo giudice che leva imperiosamente il braccio e pronuncia la sentenza e della Madre di Gesù che prega a mani giunte in una supplica di intercessione per l’umanità. Al centro della composizione un gruppo di angeli che suona le trombe per risvegliare i morti e chiamarli al giudizio. Nello spazio inferiore è descritta la scena della risurrezione dei morti. I corpi fuoriescono dalla nuda terra o spezzano i coperchi dei sarcofaghi, si rianimano e rivolgono gli occhi al cielo in attesa della sentenza del giudice. Sulla destra Caronte traghetta i dannati sulla sua barca e li rovescia con violenza a colpi di remo tra le braccia dei diavoli nell’anticamera della fornace fiammeggiante. 


Uno dei tesori artistici italiani più noti è rappresentato dal Giudizio Universale di Michelangelo, custodito in Vaticano a Roma, nella Cappella Sistina. Si tratta di un affresco magnifico e terribile, densamente popolato di personaggi, di concetti e di simboli.  Alla ‘fine dei tempi’, al suono delle angeliche trombe, i morti risorgeranno, i giusti ascenderanno al cielo, e i dannati precipiteranno nell’inferno. Michelangelo riesce a trasmettere tutta la forza del terrore per questo istante supremo, quando il tempo si compirà inesorabilmente e non ci sarà più speranza.In questa inesorabile fine, destino di tutti gli uomini, Michelangelo coinvolge tutto, anche ciò che l’uomo ha creato: nell’affresco non c’è infatti traccia alcuna di opereumane, perché alla fine non resterà più nulla. Una visione tragica della storia dell’uomo, che in questo affresco ha una rappresentazione insieme monumentale e commovente. L’intero affresco è dominato dalla figura umana, presentata quasi sempre totalmente nuda. I corpi sono quelli tipici dello stile michelangiolesco, proposti con grande espressività e potenza. 

 
L’enorme quantità di nudi, presenti nell’affresco, suscitò molte critiche tanto che, già alla morte di Michelangelo, nel 1564, la chiesa incaricòil pittore Daniele da Volterra di intervenire per realizzare panneggi su alcune parti intime delle figure. Nonostante ciò, l’affresco non ha perso la sua forte potenza espressiva che oggi, dopo i recenti restauri di ripulitura, si presenta ancora come una delle opere pittoriche più intense della storia dell’arte.

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Dies irae

Il Dies irae è una 'sequenza' in lingua latina, molto famosa, attribuita al francescano fra Tommaso da Celano (1190 – 1265 circa). Sono in molti a ritenerla una composizione poetica medievale tra le più riuscite. C'è un salto di stile rispetto al latino classico: il ritmo è accentuativo e non quantitativo, e i versi sono rimati con rima baciata (AAA, BBB, CCC) a eccezione delle ultime due strofe. Il Dies irae in canto gregoriano, è una delle parti più note del requiem e quindi del rito per la messa esequiale previsto dalla messa tridentina. 

 Fra Tommaso da Celano
 

L'ispirazione dell'inno è biblica: sembra infatti tratto dalla versione latina della Vulgata del libro del Profeta Sofonia (1,15-16): “Dies irae, dies illa, dies tribulationis et angustiae, dies calamitatis et miseriae, dies tenebrarum et caliginis, dies nebulae et turbinis, dies tubae et clangoris super civitates munitas et super angulos excelsos”.

"Giorno d'ira quel giorno, giorno di angoscia e di afflizione, giorno di rovina e di sterminio, giorno di tenebre e di caligine, giorno di nubi e di oscurità, giorno di squilli di tromba e d'allarme sulle fortezze e sulle torri d'angolo".

Il Dies irae è dunque un richiamo potente al Giudizio finale, al quale nessun uomo potrà sottrarsi. Questo canto liturgico, inserito nella Messa di rito romano per i defunti, descrive la fine dei tempi nell’ultimo giorno, e la tromba che raccoglie le anime davanti al trono di Dio, dove i buoni saranno salvati e i malvagi condannati al fuoco eterno, come preconizzato nel Vangelo di Matteo (25, 31-46).

"Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti gli angeli, prenderà posto sul suo trono glorioso. Davanti a lui verranno radunate tutte le genti ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno a destra: venite, o voi, benedetti del Padre mio a prendere possesso del Regno... e a quelli della sinistra dirà: andate via da me o voi, i maledetti, al fuoco eterno"

Celebri compositori hanno rimesso in musica il testo di questa Sequenza nelle loro messe di requiem: tra i più noti il Dies irae di Mozart, quello di Giuseppe Verdi e quello di Luigi Cherubini.


Il testo

Il testo poetico si articola essenzialmente in due blocchi principali nettamente distinti anche dal punto di vista tematico, più un terzo. 

Nel primo blocco (vv. 1-21) prevale il tempo futuro e il tema centrale è la visione apocalittica del Giudizio universale, che pone l'uomo con tutta la sua miseria di fronte alla maestà di un Dio descritto con accenti veterotestamentari. 

Nel secondo blocco (vv. 25-51) prevale la preghiera. Allo sgomento dinanzi alla potenza divina subentra la speranza nell'infinita misericordia del Creatore. In questo secondo blocco compaiono temi desunti dal Nuovo Testamento: dapprima viene riaffermata la consapevolezza della terribile potenza di Dio («Rex tremendae maiestatis»); ma poi, tramite l'abbandono al mistero della grazia («qui salvandos salvas gratis») si apre la strada alla speranza e quindi alla preghiera vera e propria («salva me, fons pietatis»). Non viene certo meno il senso dell'inadeguatezza dell'uomo, ma il pessimismo sulla sua natura è rischiarato dal sacrificio di Cristo, che ha patito sulla croce proprio per salvare l'umanità dal peccato (vv. 25-30). 

Il terzo blocco finale, il più breve, occupa i vv. 52-57, ripresenta sinteticamente l'alternanza tra il motivo del timore e quello della preghiera e della speranza.

Gli ultimi tre versi, che si discostano metricamente dal resto del componimento, testimoniano della natura liturgica di questo testo (che veniva intonato nell'ufficio dei Defunti).


1. Dies irae, dies illa
solvet saeclum in favilla:
teste David cum Sibylla.

4. Quantus tremor est futurus,
quando iudex est venturus,
cuncta stricte discussurus!

7. Tuba mirum spargens sonum
per sepulcra regionum,
coget omnes ante thronum.

10. Mors stupebit et natura,
cum resurget creatura,
iudicanti responsura.

13. Liber scriptus proferetur,
in quo totum continetur,
unde mundus iudicetur.

16. Iudex ergo cum sedebit,
quidquid latet apparebit:
nil inultum remanebit.

19. Quid sum miser tunc dicturus?
Quem patronum rogaturus,
cum vix iustus sit securus?


22. Rex tremendae majestatis,
qui salvandos salvas gratis,
salva me fons pietatis.

25. Recordare, Iesu pie,
quod sum causa tuae viae:
ne me perdas illa die.

28. Quaerens me, sedisti lassus:
redemisti Crucem passus:
tantus labor non sit cassus.

31. Iuste iudex ultionis,
donum fac remissionis
ante diem rationis.
 34. Ingemisco, tamquam reus:
culpa rubet vultus meus:
supplicanti parce, Deus.

37. Peccatricem qui solvisti,
et latronem exaudisti,
mihi quoque spem dedisti.

40. Preces meae non sunt dignae:
sed tu bonus fac benigne,
ne perenni cremer igne.

43. Inter oves locum praesta,
et ab haedis me sequestra,
statuens in parte dextra.

46. Confutatis maledictis,
flammis acribus addictis:
voca me cum benedictis.

49.Oro supplex et acclinis,
cor contritum quasi cinis:
gere curam mei finis.


52. Lacrimosa dies illa,
qua resurget ex favilla
iudicandus homo reus.

55. Huic ergo parce, Deus:
pie Iesu Domine,
dona eis requiem.




Il 'Dies irae' cantato in gregoriano


Il giorno dell'ira, quel giorno che
dissolverà il mondo terreno in cenere
come annunciato da Davide e dalla Sibilla.

Quanto terrore verrà
quando il giudice giungerà
a giudicare severamente ogni cosa.

La tromba diffondendo un suono mirabile
tra i sepolcri del mondo
spingerà tutti davanti al trono.

La Morte e la Natura si stupiranno
quando risorgerà ogni creatura
per rispondere al giudice.

Sarà presentato il libro scritto
nel quale è contenuto tutto,
dal quale si giudicherà il mondo.

E dunque quando il giudice si siederà,
ogni cosa nascosta sarà svelata,
niente rimarrà invendicato.

In quel momento che potrò dire io, misero,
chi chiamerò a difendermi,
quando appena il giusto potrà dirsi al sicuro?


Re di tremendo potere,
tu che salvi per grazia chi è da salvare,
salva me, fonte di pietà.

Ricorda, o pio Gesù,
che io sono la causa del tuo viaggio;
non lasciare che quel giorno io sia perduto.

Cercandomi ti sedesti stanco,
mi hai redento con il supplizio della Croce:
che tanto sforzo non sia vano!

Giusto giudice di retribuzione,
concedi il dono del perdono
prima del giorno della resa dei conti.

Comincio a gemere come un colpevole,
per la colpa è rosso il mio volto;
risparmia chi ti supplica, o Dio.

Tu che perdonasti la peccatrice,
tu che esaudisti il buon ladrone,
anche a me hai dato speranza.

Le mie preghiere non sono degne;
ma tu, buon Dio, con benignità fa'
che io non sia arso dal fuoco eterno.

Assicurami un posto fra le pecorelle,
e tienimi lontano dai caproni,
ponendomi alla tua destra.

Una volta smascherati i malvagi,
condannati alle fiamme feroci,
chiamami tra i benedetti.

Prego supplice e in ginocchio,
il cuore contrito, come ridotto a cenere,
prenditi cura del mio destino.


Giorno di lacrime, quello,
quando risorgerà dalla cenere
il peccatore per essere giudicato.

Perdonalo, o Dio:
pio Signore Gesù,
dona a loro la pace.




Il Requiem di Verdi

 

La Messa da Requiem è una composizione sacra di Giuseppe Verdi del 1874 per coro, voci soliste ed orchestra, dedicata ad Alessandro Manzoni.

Dopo il successo di Aida, Verdi si ritirò per un lungo periodo dal teatro d'opera. Non smise tuttavia di comporre e il lavoro più importante di questo periodo, la Messa da Requiem.Verdi pensava da tempo ad una composizione del genere a più mani, in commemorazione di Gioachino Rossini. Ne scrisse il "Libera me Domine" della messa, ma il pezzo non fu mai usato a causa del fallimento del progetto. Particolarmente colpito dalla morte di Alessandro Manzoni (1873), Verdi decise di riprendere la composizione dell'intera messa. 

Così Verdi scriveva all’editore Ricordi: «Io pure vorrei dimostrare quanto affetto e venerazione ho portato a quel grande che non è più e che Milano ha tanto degnamente onorato. Vorrei mettere in musica una Messa da requiem da eseguirsi l'anno venturo per l'anniversario della sua morte. La Messa avrebbe proporzioni piuttosto vaste, ed oltre ad una grande orchestra ed un grande coro, ci vorrebbero anche quattro o cinque cantanti principali». 

Il requiem fu eseguito in occasione del primo anniversario della morte di Manzoni, il 22 maggio 1874, nella Chiesa di San Marco a Milano, diretto dallo stesso Verdi. Il successo fu enorme e la fama della composizione superò presto i confini nazionali.


Il Requiem è una riflessione sull’anima dopo la morte. Vi è il senso di umiltà dell’uomo, angosciato dalla propria vita e dal dolore, davanti al Dio supremo. Il Kyrie inizia piano, sottovoce, come le anime supplichevoli di fronte ad un giudice. Poi esplode il Dies irae, il giorno del giudizio universale. L’orchestra è in fortissimo, il coro emette suoni laceranti, le grancasse sparano cannonate; affiora il terribile giudizio e l’angoscia.


L'incipit del 'Dies irae' di Giuseppe Verdi

Ma nel Requiem di Verdi vi è anche il lirismo del Recordare, un duetto tra il soprano e il mezzosoprano, un inno d’amore e d’affetto verso Gesù, ma anche del Lux Aeterna, dove il tremolo dei violini iniziale e la voce del mezzosoprano danno l’idea della luce che viene da Dio; ma il basso, i timpani e gli ottoni ricordano che la punizione divina è per tutti. 

Il Requiem è anche la disperazione del Lacrimosa, vera e propria gemma verdiana. Basterebbe solo ascoltare l’inizio degli archi in questo pezzo (che sembrano riprodurre un lamento) per capire la grandezza di questo brano e del suo autore.


Il Requiem, tra Mozart e Verdi

Due messe di 'requiem' a confronto, quella di Giuseppe Verdi del 1874, e quella di Mozart (K 626), composta nel 1791. L'articolo che segue, di Eugenio Scalfari, è ripreso dalla rubrica 'Il vetro soffiato' del settimanale ESPRESSO del 16 gennaio 2009.

"La musica così intensa del Requiem verdiano, ricca di armonia e perfino di frasi melodiche inusuali per un testo di musica sacra, ha la capacità di suscitare sentimenti altrettanto intensi nell'animo di chi l'ascolta: la morte, la vita, la trascendenza, la profezia, il giudizio, la pietà. La potenza del divino. La miserabilità delle creature. Proprio l'intensità di questi temi e la loro incombenza esistenziale mi ha spinto a riascoltare la messa di 'requiem' mozartiana, secondo me una delle opere più alte che siano state scritte nella storia della musica. So che questo giudizio non è molto condiviso dalla critica militante, ma io non sono un critico, perciò mi valgo della libertà di esprimere il giudizio di un ascoltatore attento e partecipe. 

Secondo me il 'requiem' di Mozart tocca corde e suscita emozioni ancor più profonde di quanto non avvenga con quello di Verdi. Non sto confrontando due testi per stabilire quali dei due sia esteticamente più riuscito dell'altro, operazione impossibile e criticamente assurda. Sto invece confrontando il coinvolgimento emotivo che quei due spartiti provocano nella sensibilità degli ascoltatori o, per esser più esatti, nella mia.

La messa verdiana fu composta a blocchi, in tempi diversi. Una parte Verdi la scrisse in occasione della morte di Rossini, ma non la completò. Una decina d'anni dopo morì Manzoni e fu questa l'occasione che gli fece completare lo spartito.

La storia del K 626 è ancor più complicata: Mozart la scrisse su commissione di un nobile viennese, ne iniziò la composizione nel febbraio del 1791 ma la morte sopraggiunse in dicembre e l'opera rimase incompiuta. Le parti del 'Sanctus', dell''Agnus Dei' e della 'Lux aeterna' mancavano del tutto e il musicista chiamato dalla moglie a completare la partitura utilizzò i temi che Mozart aveva usato nel 'Kyrie' di apertura variandone l'orchestrazione. La conseguenza di questa operazione è stata a mio avviso positiva: ha dato compattezza alla partitura senza impoverirne la creatività.

Queste due messe da 'requiem' non sono composizioni ascrivibili al genere della musica sacra. Sia per Mozart sia per Verdi sono state occasioni per confrontarsi con la morte e con i temi ad essa connessi.

Verdi è stato il creatore del melodramma romantico. Quella era la sua cifra e quella emerge anche nel 'requiem' con indicibile potenza espressiva: il testo liturgico della messa funebre offre infatti una traccia che tocca i vertici della drammaticità: la fine della vita, l'attesa del confronto col Signore dei cieli, la solitudine dell'anima e il rimorso dei peccati commessi, la tragica prospettiva delle bolge infernali e l'anelito alla beatitudine del Paradiso. Si può avere un libretto d'opera più intenso di questo? Verdi lo usò profondendovi tutte le sue potenzialità poetiche e melodiche, affidando ai solisti la parte principale e utilizzando il coro come commento alle vicende del testo. Insomma il racconto dell'anima nel momento del trapasso dal mondo all'oltremondo. O al nulla.

Il 'requiem' mozartiano non ha invece alcuna parentela con il melodramma. Infatti è il coro a farla da protagonista mentre i solisti sono utilizzati per sottolineare i titoli del testo liturgico. Il coro cioè l'umanità, la specie più ancora che l'individuo, nel momento del confronto definitivo col creatore mentre risuonano le trombe del giudizio. I violini e in generale gli archi hanno un ampio ruolo nel testo verdiano mentre in quello mozartiano predominano gli ottoni e i bassi. La scansione è solenne e ritmata laddove Verdi osa addirittura intrecciare la marcia con i tre tempi del valzer e con le melodie della romanza.
Mozart tocca il culmine nel 'Confutatis maledictis' e nel 'Lacrimosa', Verdi raggiunge il diapason nel 'Libera me Domine' e nel finale 'Lux aeterna'. L'anima verdiana si trasfigura nell'anelito verso la salvezza; il 'requiem' di Mozart restituisce invece l'umanità agli elementi in un giorno apocalittico "Dies irae, dies illa solvet saeclum in favilla...".Due grandiosi componimenti sulla morte, capaci di dare un senso alla vita".



Un'interpretazione del 'Dies irae' di Mozart
(Trio spagnolo 'Amadeus') 


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 Il  I  'Salottino' 
del 14, 21 e 28 ottobre 2019



L'INFINITO                                     

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare. 

Ho sempre amato questa collina solitaria e questa siepe che impedisce allo sguardo di vedere gran parte dell’estremo orizzonte. Ma, sedendo e contemplando, io immagino in meditazione, al di là della siepe, spazi indeterminati, silenzi ignoti, non percepibili dall’esperienza umana, quiete assoluta; e in quegli spazi e in quei silenzi poco manca che il mio cuore non si smarrisca, spaventato dalla percezione dell’infinito evocata dall’immaginazione. Ma, non appena odo tra queste piante che mi circondano lo stormire del vento, io vado paragonando il silenzio infinito (che avevo immaginato) a questa voce, a questo stormire di foglie: ed allora mi viene in mente il pensiero dell’eternità, dell’infinito nel tempo, e le età passate della storia, e l’età presente, ancora viva e pulsante, e i suoi rumori, il suono delle azioni degli uomini che il presente restituisce. Così il mio pensiero si smarrisce in questa meditazione sull’infinito nello spazio e nel tempo: e provo piacere, mi inebrio quasi, quando il mio intelletto si perde nell’oceano dell’infinito.


L’Infinito di Giacomo Leopardi compie quest’anno 200 anni: una poesia che ritrae uno stato d’animo dell’uomo. Lo spazio e il tempo - entità non limitabili - si concretizzano nell’alternarsi delle stagioni, nella vita che muore e rinasce senza soluzione di continuità. 

Il poesta volge lo sguardo ad elementi paesaggistici a lui familiari, che gli provocano una profonda riflessione sui misteri dell’esistenza. Gli elementi naturali protagonisti nei primi versi sono un colle e una siepe che ostacola  lo sguardo. Pochi elementi che, allo spirar del vento tra le foglie, permettono all’autore di riflettere su spazio e tempo, su passato e presente, e il loro infinito dilatarsi che lo rivela piccolissimo di fronte alla grandezza di questi elementi.

Poi lo sgomento lascia spazio alla dolcezza. I limiti diventano un’opportunità per volare oltre, usando la propria immaginazione. Un’esperienza personale ed intima, un sogno a cui il poeta, naufragando, si abbandona.


Un inno all’immaginazione

Nel 1819, sul monte Tabor a Recanati, Giacomo Leopardi compone “L’infinito”, una delle liriche più celebri della letteratura italiana. Nello Zibaldone, il poeta spiega che dove il nostro sguardo non arriva, può farlo quello interiore. “L’infinito” è dunque un inno all’immaginazione.

Il 'colle' dell'Infinito, a Recanati

Giacomo Leopardi compone “L’infinito” quando ha poco più di vent'anni, nel 1819. La lirica verrà tuttavia pubblicata soltanto sette anni dopo, nel 1826, negli “Idilli”, quando Giacomo è lontano da Recanati e pensa di aver spezzato il legame col suo “natìo borgo selvaggio” che egli considera un ambiente decadente ed asfissiante.

Ma nel 1819 Leopardi è ancora un ragazzo ed ha l’abitudine di recarsi, nei lunghi pomeriggi solitari, sul colle nei pressi della sua villa di Recanati. 

È una siepe a suscitare l'immaginazione di spazi infiniti, e questo proprio perché impedisce alla vista di spingere lo sguardo verso i confini del visibile. 

Eppure, gli spazi sterminati con i loro silenzi siderali e una pace assoluta, sono raggiungibili con la forza dell'immaginazione. Nel 1820, Leopardi  nota sullo Zibaldone che ci sono momenti in cui l'anima desidera "una veduta ristretta, perché allora in luogo della vista lavora l'immaginazione, e il fantastico sottentra al reale".


L’angoscia esistenziale di  Leopardi 

L’anima e la parola leopardiane sono incise per sempre nella memoria e nella fantasia; e se la malinconia ne costituisce un motivo essenziale. Una delle poesie più insondabili e splendenti “L’infinito” non esprime forse il senso di una stupefazione incrinata in Giacomo Leopardi di un’angoscia esistenziale?

La linea tematica di un’angoscia esistenziale sembra riemergere con assoluta modernità in questi versi incomparabili e abbaglianti, musicali e trasfigurati in una lacerante contemplazione. Il discorso leopardiano si svolge nel contesto di immagini dolci e strazianti che rispecchiano il pensiero dello scorrere e del maturare delle cose, del vivere e del morire, del silenzio e della parola (della voce) del vento. Ma ogni espressione lirica sembra sfiorata, e sigillata, dalla linea vibrante e misteriosa della paura e dell’angoscia. 

Gli spazi interminati non possono non accompagnarsi, del resto, allo smarrimento e allo sgomento lacerante del cuore: che l’emozione lirica di Leopardi trasfigura nel suo linguaggio fatto di trasparenze abbaglianti e di musicali assonanze, talora mozartiane. Il tempo e lo spazio, il tempo e lo spazio del cuore, sono in ogni caso le categorie metafisiche che tolgono alla poesia ogni terrestrità e fanno di essa una vertiginosa contemplazione della vita e della morte.

da: Eugenio Borgna, “Le figure dell’ansia”, Feltrinelli, Milano, 1998.

  
Una  lettura del testo  *
  
              
               

Il poeta rievoca luoghi e ambientazioni familiari, esplora la sua soggettività: uno spazio concreto (l’area delimitata dalla siepe) e un’abitudine personale (il consueto salire sulla collina). Gli elementi esteriori si riducono ad un colle, ad una siepe che limita l’orizzonte, poi ad uno stormire di fronde. 

L’avvio è dato da una sensazione visiva: la vista è impedita, la siepe annulla lo sguardo e gli impedisce di spingersi fino all’orizzonte estremo, il reale è escluso. Leggiamo nello “Zibaldone”: “allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale”

L’avverbio iniziale “Sempre” suggerisce la consuetudine affettuosa che Leopardi ha con il suo colle. L’aggettivo “ermo” (solitario) ci svela da subito uno degli aspetti più interessanti del linguaggio di questa lirica: l’intreccio di tutta una serie di parole indefinite (ermo, interminati, sovrumani, infinito, eterno, immensità) con aggettivi dimostrativi (questo, quello), la cui inversione ci apre stimolanti squarci di interpretazione. 

La concretezza e la familiarità dei luoghi iniziali è confermata dalla ripetizione ostentata dei due aggettivi dimostrativi (questo colle, questa siepe). Ma il poeta si stacca da ciò che lo circonda, va al di là della siepe, fingendo gli spazi interminati. E quanto più il pensiero si volge all’interminato, tanto più ricorrono gli aggettivi dimostrativi: otto volte in quindici endecasillabi; e undici volte ricorre la congiunzione “e”, a segnare le riprese, i trapassi e il naufragare del pensiero. 

Interessante, ancora, rilevare che i primi due versi sono composti da tutte parole bisillabe e piane mentre il terzo verso si allunga su un trisillabo sdrucciolo, “ultimo”, e su un quadrisillabo, “orizzonte”, come se le parole brevi si adeguassero perfettamente allo spazio ristretto mentre, quando questo comincia ad allargarsi, si ha quasi il bisogno di un piano lessicale più vasto: questa impressione sarà confermata dai versi successivi. Ci sono due coppie in relazione di assonanza: “sempre-siepe”, “caro-guardo” che confermano questo ritmo bisillabico. 

Un’altra notazione: il primo verso è isolabile sintatticamente come lo sarà solo l’ultimo ed entrambi esprimono un sentimento d’affetto (sempre caro, m’è dolce), l’inizio e la fine si chiudono ad anello con andamento piano e paratattico; dal secondo verso inizia uno slittamento continuo di enjambements che vogliono sottolineare in un processo continuo ed unitario la presenza di momenti ben precisi e individuati: dal definito della siepe al naufragare nel mare dell’immensità.




Il periodo si apre con un’avversativa, “Ma”, seguita da due gerundi, “sedendo e mirando”:  il corpo si posa, la vista interiore guarda e immagina (è un guardare senza vedere o un vedere senza guardare, quindi un’operazione del tutto mentale). Il pensiero si costruisce (si finge) l’idea di un infinito spaziale, cioè di spazi senza confini, immersi in silenzi al di là dell’umano  e in una quiete profondissima, in una immobilità assoluta, spazi che trascendono la mente umana. Il pensiero si immerge in uno spazio immenso, verso l’infinito immaginato, dove ogni segno umano è assente e dominano silenzio e quiete. 

In questi versi c’è una netta prevalenza di parole molto lunghe, quadrisillabi (“interminati, sovrumani”) e pentasillabi (“profondissima”), adattissime a dare il senso di un’esperienza di spazi vertiginosi, con una immaginazione che scaturisce dall’altra: un climax ascendente che connota il passaggio dallo spazio chiuso e familiare del colle di Recanati allo spazio esterno, illimitato, diverso, infinito, immobile, senza suoni.

E’ mirabile la continuità sintattica e metrica che Leopardi usa per spiegare intellettualmente l’immersione nello spazio infinito: il discorso continua sempre nel verso seguente (enjambements in tutti i versi) e, nel mezzo dei versi, il polisindeto (“e sovrumani, e profondissima”) raccorda e accentua. 

La sintassi è più mossa, la dieresi nel sostantivo quiete ne prolunga il suono e l’impiego dei plurali rende le voci più indeterminate, “spazi, silenzi”. 

A metà del settimo verso, la particella congiuntiva “ove” introduce un brivido di sgomento, accentuato dalle vocali dal suono cupo (ove, poco, cor) ma soprattutto dall’accento tonico sulla “u” nel verbo “spaura”, posto significativamente in rilievo alla fine del periodo: è un timore che non assale il pensiero ma il cuore, la parte più fragile del nostro essere. 

Così si chiude la prima esperienza di vertigine mentale, quella spaziale. Anche il  filosofo francese Blaise Pascal (1623-62), scriveva: “le silence éternel de ces éspaces infinis m’effraie” (“l’eterno silenzio di questi spazi infiniti mi sgomenta”).



                                   
Un fatto del tutto naturale, “il vento”, segna il passaggio (ancora attraverso una sensazione, la prima volta visiva, ora uditiva) dall’immaginazione spaziale a quella temporale. Il fruscio del vento, la voce più immateriale e misteriosa della natura, è termine di analogie metafisiche nell’insondabile abisso del tempo: il confronto della tenue voce della folata di vento con l’infinito silenzio genera l’idea dell’eternità, e dunque del rapido fluire del tempo, passato e presente. 

E’ con lo stormire del vento che il pensiero assume una nuova direzione e si volge dall’uno all’altro infinito. Ed è ancora un gerundio, “comparando”, a prolungare la meditazione del poeta, aggiungendovi ampiezza e dolcezza. 

In rapidissima successione, il poeta elabora il pensiero dell’eternità, silenziosissimo quello se paragonato a questa effimera voce del vento: e vi associa la memoria delle epoche storiche passate e svanite e i rumori del tempo presente e contemporaneo, inutilmente rumoroso, anch’esso destinato inevitabilmente a morire e ad estinguersi. Il presente è visto nella sua nullità, sullo sfondo di un tempo sterminato dove l’anima si perde e dimentica quasi la propria finitezza. 

Se all’inizio della lirica il poeta è passato dalla finitezza della siepe all’indeterminatezza dello spazio sovrumano, in questa seconda parte il suono familiare del vento, risvegliandolo, lo fa precipitare dal pensiero dell’eternità alla coscienza del presente, in una sorta di andata e ritorno familiari e fantastici nello stesso tempo. 

La netta pausa al centro dell’ottavo verso, contrassegnata dal punto, segna il passaggio dal pensiero dell’infinito spaziale a quello dell’infinito temporale e serve a distinguere i due momenti. Ma la loro continuità è sottolineata dalla congiunzione “E” all’inizio del secondo periodo, continuata dall’ “e mi sovvien” che copia l’esperienza dell’infinito spaziale (“l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei”). Così le innumerevoli età del passato si configurano come stagioni, cioè labili e sparenti nel tempo. 

Le parole ora sono brevi, al massimo trisillabe; gli arditi polisillabi che davano il senso della vertiginosa esperienza spaziale cedono il posto a parole più brevi e consuete che quasi preparano alla pace del naufragio finale. Le congiunzioni (e la presente e viva, e il suon di lei ) insistono sulla presenza attuale della storia e ne fanno sentire, nello stesso tempo, la caducità, lo sparire irrimediabile. Il verbo “sovvien” (in latino “sub-venire” significa “sottentrare”) è di solito riferito al ritorno del passato nella memoria, ma qui suggerisce il pensiero che affiora dalla profondità della mente, da una sua zona oscura. 

“Con il vento risorge il limite, il qui, il questo, che prima il poeta aveva abolito col pensiero. La voce del vento cancella la concentrazione assoluta della mente nei propri abissi, allontana l’infinito che aveva creato e fa rinascere la realtà esterna. Mentre la realtà rinasce, rinasce il tempo –il terribile consumatore, il grande consolatore e confortatore- al quale egli aveva voltato le spalle. E si sforza di definire e concentrare il contenuto del flusso di sensazioni al quale è sottoposto. Fa luce nel mare del tempo. E tenta un altro esperimento intellettuale paragonando il silenzio infinito, che aveva appena creato con la mente, e la voce del vento che ora stormisce tra le piante” (Piero Citati, su Repubblica

Dove va il tempo? Dove vanno le stagioni passate? Come da una siepe è nato l’infinito dello spazio, così da un soffio nasce quello del tempo, un infinito ancora più sovrumano e interminato che la mente invano tenta di sondare e di comprendere.



Nella meditazione sull’infinito spazio-temporale il pensiero si smarrisce, ma lo smarrimento genera piacere. Questa dolcezza inebriante (rappresentata dall’ossimoro “il naufragar m’è dolce”) annega le facoltà intellettive nel mare dell’infinito. Si annulla l’io che si perde, ma questo rifiuto di sé è dolce, quasi pacificato. L’ampiezza delle vocali in “a” (immensità, naufragar, mare) dissolve i brividi di paura già evocati dalle vocali dal suono cupo dei versi 7 e 8. 

La coscienza, rappresentando all’uomo la verità - cioè la sua necessaria infelicità - gli incute paura; ma lo spegnersi della coscienza individuale provoca una sensazione di piacere, garantisce una forma se pur effimera di felicità. Tra lo spaurarsi del cuore e la dolcezza del naufragio non vi è però contrasto: essi infatti non sono che i due aspetti di quell’orrore dilettevole che è suscitato dall’immaginazione dell’infinito. 

Qualcuno ha voluto leggere il componimento in chiave mistico-religiosa. Nello “Zibaldone”, tuttavia, lo stesso Leopardi lo esclude con esplicita fermezza: “L’infinità dell’inclinazione dell’uomo è un’infinità materiale”. L’“infinito” leopardiano è un infinito del tutto soggettivo, creato dall’immaginazione umana (io nel pensier mi fingo), evocato da sensazioni fisiche, visive ed uditive, come di filtro sensistico sono le chiusure della paura e del piacere. 

Alcuni critici, infine, hanno segnalato la possibile presenza in questi versi di una reminiscenza di  un passo del “Quaresimale” del gesuita Paolo Segneri (1624-94): “Resterà subito il mio spirito assorbito in quel vasto Oceano di una grandezza infinita, ed ivi non trovando né spiaggia dove approdare né fondo dove giungere, amerò di andare eternamente annegandomi in un giocondo naufragio di contentezza”.        
                                           
*  Da un elaborato di Elena B., studentessa del V anno del Liceo Pedagogico“L. Stefanini” di Venezia-Mestre (genn. 1988) 
 

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   "Infinito" (Lettura di Arnoldo Foà)


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 INFINITO  di G. Leopardi 

(‘O sprufunnu)



Versione in dialetto napoletano di Paolo Martino *





L’aggio tenuto sempe dint’ ’o core
stu pizzo ’e muntagnella sulitaria
e st’arravuoglio ’e frasche ch’è nu muro
ca m’annasconne addó fernesce ’o mare.
Ma si m’assetto e guardo i’ me figuro
’na luntananza ca nun tene fine,
’nu silenzio ca mai nisciuno ha ’ntiso,
’na pace ’e Dio ca manco ‘mparaviso.
Troppo pe’ n’ommo, quase fa paura.
E quanno ventulea mmiez’ a ’sti fronne
chillu silenzio ca me dà ’o scapizzo
cu ’sta voce d’ ’o viento se cunfronna
e me veneno a mente ’e ccose eterne
’nzieme cu chelleca se so’ perdute
e penzo ’e tiempe ’e mo, e ne sento ll’eco.
Cu ’o penziero me sperdo int’ ’o sprufunno
e doce doce me ne vaco ’nfunno.



* Paolo Martino,  professore ordinario di linguistica e glottologia all’Università LUMSA di Roma



 
     'O Sprufunno' (Lettura di Mauro Bastianini)


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INFINITO  di G. Leopardi


Versione in dialetto romanesco di Francesco De Gregori *




Quanto me pò piacé ‘sto montarozzo
E ‘sta siepe che er mejo de la vista
Dell’urtimo traguardo me nasconne.
Ma si me siedo e guardo, spazzi senza
Confine là de dietro, e ‘na gran pace,
E silenzi che l’omo nun conosce
Me raffiguro, e tremo. E quanno er vento
Smucìna fra le frasche, me viè fatto
De volé confrontà quell’infinito
Silenzio co ‘sta voce: e allora penzo
Ar tempo eterno e a tutte le staggioni
Annate, e a quella attuale e tanto viva
E fracassona. E ‘n mezzo all’universo
Così s’affoga la raggione mia:
E è dorce naufragà dentro a ‘sto mare.



* Francesco De Gregori, musicista e cantautore romano, nel CORRIERE DELLA SERA, 30 giugno 2019



 " L'Infinito" in romanesco (Lettura di Karl Esse)